Filippo Badodi apprende i primi rudimenti di pittura e disegno frequentando gli artisti lugenesi Antonio Barzaghi-Cattaneo e Giuseppe Foglia. Nel 1924 soggiorna a Firenze, dove, accanto ai moderni che andava conoscendo su riviste, scopre la grande pittura toscana del Tre e Quattrocento: Giotto, Masaccio, Masolino, Piero della Francesca, ed in particolare il Beato Angelico; un’esperienza che lo segnerà profondamente e riemergerà più tardi, dentro la sua pittura, come esigenza di ordine e di misura.
Nei primi anni ’30 va a vivere con la famiglia in un modesto appartamento di via Cassarate dove poi passerà tutta la sua vita ritirata e schiva, dedicandosi interamente alla pittura. Dopo una prima fase di sperimentazione dei linguaggi sul finire degli anni ’20 (dal naturalismo al simbolismo, dal postimpressionismo al cubismo), la pittura di Boldini si accosta negli anni ’30 alla compostezza del Novecento italiano, per quanto tenuta su toni più sobri e domestici. Già vi si coglie quella componente intimistica e riflessiva che caratterizzerà poi la sua miglior pittura, unitamente all’esigenza di infrenare il naturalismo sottoponendolo al controllo della mente.
Nel corso degli anni ’40, a un primo momento in cui la sua attenzione si sposta verso la pittura francese, con conseguente schiarimento della tavolozza e immediatezza di segno, seguono nel dopoguerra paesaggi e nature morte sempre più silenti e composti, quasi metafisici, dove sulla lezione dei grandi toscani del Quattrocento, dell’Angelico in particolare, si innerva quella dei moderni Carlo Carrà e Giorgio Morandi; più tradizionali sono invece gli affreschi e i mosaici a carattere religioso.
A partire dagli anni ’50 Boldini, armonizzando le diverse spinte, tra cui il riaffacciarsi di moduli geometrizzanti, raggiunge i suoi più alti e personali risultati, ritornando, dopo lungo tempo di nature morte e fiori, al paesaggio rurale sentito e filtrato attraverso l’emozione, ma tenuto sotto controllo da una forte componente mentale che tende a ordinare lo slancio emotivo, a sorvegliare e modulare la scala cromatica. Egli riesce così a trasfigurare il paesaggio ticinese senza tradirlo, caricandolo ora di connotazioni arcaiche ora di una diffusa serenità e di una misura estatica, fino a immergerlo per effetto di luce – una luce non naturalistica, ma quasi sospesa – in un grande, e per certi versi anche religioso, silenzio.
Con gli anni ’80, i soggetti si dissolvono e sfaldano in una luce–colore diffusa e opalescente.